L’ Italia è un paese razzista? Ho girato la domanda ai diretti interessati attraverso i social network e come al solito nelle discussioni sono spuntati vari punti di vista. Posizioni diverse, tutte influenzate dalla propria visione del mondo e da esperienze personali.
L’ Italia è un paese razzista? Ho girato la domanda ai diretti interessati attraverso i social network e come al solito nelle discussioni sono spuntati vari punti di vista: “No, è un Paese che ha permesso a tanti di noi di costruire la propria vita”, oppure: “Vi dicono le parole belle in faccia, ma appena ti giri parlano male di te”. Ci sono inviti di guardare la trave nel proprio occhio (“gli stranieri sono più razzisti degli italiani) o a mettersi al posto degli italiani quando gli stranieri e considerazioni sul fatto che l’Italia “è un paese fin troppo tollerante”. Posizioni diverse, tutte influenzate dalla propria visione del mondo e da esperienze personali.
Gli ucraini vengono in Italia da un paese di continente europeo, in maggioranza sono donne occupate nei lavori socialmente utili come accudire i bambini e anziani con quali non si crea distanza per il colore della pelle o per la religione. In questo contesto “razzismo” è un’ espressione un po’ forte rispetto a ciò che succede realmente, è più giusto parlare di considerazioni stereotipate.
E’ brutto sentirsi chiamare “straniere”. Sembra che sappiano in anticipo come ti comporti e quello che pensi, come se rientrassimo in una categoria ben precisa. Le ucraine sono qui non per colpa delle guerre, ma per necessità economiche. Spesso diplomate o laureate non trovano un lavoro all’altezza della loro preparazione o capacità intellettuale. Costrette a fare lavori domestici spesso soffrono per la mancata realizzazione professionale e sociale e per l’indifferenza dei datori di lavoro: sei solo una straniera che dovrebbe far bene quello che le viene chiesto. E Il datore di lavoro che ti propone una paga minore o un contratto non adeguato? È una forma di discriminazione? Sono piccole cose che ti convincono che c’è ancora tanto da fare nel campo dell’accettazione del diverso.
E poi spunta un’altra domanda: chi dovrebbe darsi da fare? I giornalisti italiani che formano l’opinione pubblica? Inseguono i lettori mettendo già nel titolo la nazionalità degli immigrati protagonisti di episodi di cronaca nera, ma non lo fanno se a delinquere sono gli italiani. Dando informazioni in questo modo si provocano razzismo e odio, perché tanti italiani giudicano ogni straniero in base a quello che sentivano sui loro connazionali in tv. Anche i politici marciano su questo tema, facile da giocare nella propaganda elettorale, in modo che tutti sappiano che i nemici non sono gli sprechi e la mala politica, ma gli estranei con la pelle e un accento diverso.
La xenofobia è accentuata dalla crisi economica e politica. Dietro al razzismo c’è tanta paura e rifiuto di conoscere, tanta voglia di giudicare gli altri per coprire le proprie mancanze, oppure a volte solo per incolpare qualcuno che il paese in cui si vive va male perché sono state fatte scelte sbagliate. Non è perché gli italiani sono cattivi, ma semplicemente perché, nonostante Italia sia diventata un paese multiculturale, tanti non lhanno ancora accettato questo dato di fatto.
Per noi ucraine, gli italiani sono per lo più i nostri amici, i nostri mariti e i padri dei nostri figli. Sono i benefattori che ospitano i bambini ammalati dopo Chernobyl, sono le famiglie nelle quali i nostri orfani trovano nuove mamme e papà. Sono associazioni ed enti del terzo settore, che danno il sostegno agli immigrati, e anche tanta gente comune generosa in maniera disinteressata.
È giusto che esistono delle regole di una civile convivenza che valgano per tutti, il rispetto per i padroni di casa. Ma è anche giusto coltivare nella società i valori universali, uguali per tutte le razze di qualsiasi parte del mondo.
Arricchendosi con le esperienze personali degli altri si può tentare di avere una visione del mondo più equilibrata, anche perché ciò che si riesce a imparare ed esperire in una vita non è mai sufficiente.
Marianna Soronevych